Terra di lussi da mille e una notte e piste da sci nel deserto, di leggende su ricchissimi sceicchi e affascinanti beduini: di Dubai, i media, hanno raccontato, scritto e mostrato di tutto, contribuendo a creare, intorno a questa città, un’aura da sogno, ma anche molti falsi miti.
Nell’immaginario collettivo è la nuova El dorado, l’America del ventunesimo secolo, la Terra delle infinite possibilità da dove chiunque, dalla spiaggia o dal campo da golf, può facilmente guadagnare un fortuna, spostandosi solo in Ferrari o Maserati.
Poi ci sono quelli che, invece, “a Dubai non verrò mai, perché le donne non possono guidare, devono girare con il velo in testa e non hanno diritti”, quelli che “Nooo, ma non sai che ti portano via il passaporto e resti intrappolato per anni?”, quelli che “Ma è sicuro girare per strada, con tutti quegli arabi?”
Sui social media, poi, Dubai è carissima: talmente tanto che nessun lavoro ti permetterà mai di viverci in maniera dignitosa. Oppure è economicissima: “io ci sono stata una settimana, mio nipote cingalese fa il barman lì e vi assicuro che costa molto meno dell’Italia!”.
A Dubai fa sempre caldo, tanto caldo, così caldo che “per sei mesi all’anno non si può uscire di casa e si vive solo nei centri commerciali”.
E poi, l’immancabile, intramontabile, classico dei classici: “Dubai è finta”, frase da sempre tanto popolare quanto l’ormai, più recente “Dubai è finita”.
Ma com’è davvero vivere a Dubai? Che stile di vita hanno gli italiani che vivono qui? Cosa c’è da sapere prima di, eventualmente, decidere di fare questo passo?
Iniziamo con il dire che, come per qualunque altro posto del mondo, ogni esperienza è certamente soggettiva e, in nove anni, ho conosciuto persone che l’hanno amata alla follia e odiata profondamente. Ho anche conosciuto chi non vedeva l’ora di lasciarla e sognava posti diversi, ma, una volta realizzato quel sogno, ha cambiato idea ed è tornato indietro, finendo per apprezzarla molto più di quanto non avesse mai ritenuto possibile in un primo tempo.
La prima volta che sono arrivata qui, prima di trasferirmi, ricordo di aver pensato, dopo i primi tre giorni passati a bocca aperta, tra una cena sotto al Burj Khalifa con le sue fontane, un tè al Burj Al Arab e un giro sull’“abra” (imbarcazione tipica) del Madinat Jumeirah, che questa fosse una città “senza anima”. Mi sono ricreduta una volta iniziato a cercare casa, quando ho esplorato la Dubai della “gente normale”, e non quella del turismo del lusso della settimana di vacanza o della riunione di lavoro: l’anima c’era eccome, bastava guardare nella direzione giusta. Non è nei grattacieli dallo stile spesso scopiazzato, né nelle casette tutte uguali, né nelle aiuole piene di fiori tra gli svincoli autostradali, ma nella gente, di ogni angolo del mondo, che vive qui e ha trasformato, letteralmente un pezzo di deserto in una metropoli. Non nel grattacielo o nelle casette, appunto, ma in chi ha immaginato che, proprio lì, sulla sabbia, ci sarebbe stato un grattacielo o un’intera “community” (quartiere spesso recintato), in chi li ha progettati, in chi li ha costruiti…Basti pensare alle migliaia di ragazzi, lavoratori indiani e pakistani, che hanno, inevitabilmente, portato qui un pezzo di India e di Pakistan, con odori, sapori, tradizioni e lingue ormai diventati parte integrante di questo posto. E chi li abita, ovviamente, famiglie che sono arrivate sole e si sono ritrovate a stringere amicizie molto forti con vicini di casa, arrivati soli anch’essi, con i quali, in qualunque altro posto del mondo, non avrebbero, probabilmente, avuto quasi nulla in comune.
Dubai è la città cosmopolita per eccellenza, in cui convivono pacificamente persone di tutte le nazionalità del mondo, delle culture più disparate ed estrazione sociale anche agli antipodi. È il posto in cui la ragazza in burkini e quella in bikini fanno il bagno in piscina insieme senza stupirsi l’una dell’altra e i bambini, a scuola, imparano i nomi degli altri Paesi nel momento in cui i compagni si presentano.
Ma è anche la città in cui non esiste una vera “integrazione”: tendenzialmente, e salvo ovvie eccezioni, le persone che la popolano vivono in comunità che si sfiorano, si incrociano ma non si fondono quasi mai del tutto. Gli expat restano con gli expat, i “local” rimangono per lo più tra di loro, felici che gli stranieri abbiano dato vita alla loro città così come tutti la conoscono oggi, ma fieri della loro cultura e difensori delle loro tradizioni.
Noi stranieri siamo tutti benvenuti, fintantoché lavoriamo e contribuiamo a far prosperare la città. Non abbiamo grandi limitazioni per quanto riguarda il nostro modo di vivere né di vestire, abbiamo scuole internazionali per i nostri figli, chiese e templi dove praticare ogni tipo di culto e religione, supermercati dove trovare tutti i cibi a cui siamo abituati, servizi personalizzati e su misura di ognuno. Ma, a meno che la recentissima proposta di legge sulla cittadinanza agli stranieri non venga ratificata velocemente e applicata realmente, non solo in casi rarissimi come successo fino ad ora, assolutamente mai, noi, i nostri figli o i nostri nipoti saremo emiratini. Non avremo mai il passaporto di questo Paese, e, non importa da quanti anni siamo qui, se perdessimo il nostro lavoro avremmo solo qualche mese di tempo per trovarne un altro o fare i bagagli e andarcene. Capita così, a volte (ed è capitato spesso, nei mesi passati, purtroppo) che giovani cresciuti qui fossero costretti a “tornare a casa loro”, in un Paese “loro” solo sui documenti, in cui non hanno mai vissuto, del quale parlano male la lingua e in cui hanno familiari che non conoscono o conoscono appena.
Dubai è una delle città più sicure del mondo: la microcriminalità è quasi inesistente, e non è infrequente vedere, nei caffè o nelle “food court” dei centri commerciali, tavolini vuoti con borsette o telefonini appoggiati sopra. È il modo più comune di tenerli occupati mentre si va ad ordinare! Le auto, anche le più lussuose, vengono spesso lasciate aperte e si perdono portafogli o cellulare, si è praticamente certi di ritrovarli lì dove sono stati lasciati. Certo, a chiunque entri nel Paese vengono prese le impronte digitali, ci sono telecamere che, discretamente, inquadrano quasi ogni angolo della città e la legge è severissima: chiunque commetta un reato viene praticamente sempre arrestato nel giro di poche ore per finire in prigioni che nulla hanno a che vedere con il lusso della città e poi espulso permanentemente dagli Emirati. Chi, invece, viene identificato dopo essere già salito su un areo, può essere certo che, se mai metterà nuovamente piede da queste parti, anche solo in transito per andare altrove, verrà prelevato dall’aeroporto e consegnato alla giustizia.
Non ci sono, dunque, rischi, nel passeggiare per la città, né di giorno né di notte, nemmeno per ragazze sole: la polizia prende molto seriamente qualunque segnalazione di comportamento inappropriato, e anche quello che in Italia viene spesso considerato una goliardata o un comportamento socialmente quasi accettabile, come un fischio, una foto, o un apprezzamento insistente, qui può essere denunciato con una telefonata alle forze dell’ordine che intervengono immediatamente.
Mantenere l’ordine, il decoro e la sicurezza è una priorità, così le leggi impongono, pena forti sanzioni, quello che il buon senso dovrebbe suggerire. Ma visto che, appunto, persone di culture diverse hanno concezioni diverse di “buon senso” e “socialmente accettabile”, le regole per una convivenza pacifica e per preservare la dignità delle persone e dei luoghi sono precise e inderogabili: è vietato buttare cartacce e sputare per terra (in alcuni Paesi asiatici, sputare, è socialmente accettabile), è vietato vestire con abiti eccessivamente succinti (magliette senza maniche e pantaloncini sono comunque tollerati ovunque, tranne che negli uffici pubblici, dove spalle e ginocchia devono essere coperti), è vietato scambiarsi effusioni in pubblico (niente pomiciate in spiaggia o al cinema, tanto per capirci!), è vietato scattare foto ad altri senza il loro consenso, è vietato insultare il prossimo ( anche solo alzare il dito medio), bestemmiare qualunque Dio o religione, prendere in giro il Paese altrui, criticare apertamente la famiglia reale o il Governo, avere relazioni extraconiugali o prematrimoniali (niente figli fuori dal matrimonio, per essere chiari) ed è vietato, ma proprio vietatissimo, guidare dopo aver bevuto anche solo mezzo bicchiere di vino (dopo una cena al ristorante o una serata al pub si può sempre chiamare un autista che guidi la nostra macchina e ci riporti a casa in sicurezza).
È vietato chiedere l’elemosina per strada e raccogliere fondi per cause non approvate e verificate da un ente governativo apposito, diffondere notizie fasulle (le famose “bufale”) sui social media, screditare pubblicamente l’operato di una società o di un individuo (anche in questo caso, ci sono organi preposti ai quali rivolgersi), utilizzare, importare o distribuire qualunque tipo di droga o sostanza psicotropa che non sia stata prescritta da un medico, è vietata la pornografia e ed è vietato vendere qualunque cosa ( e lavorare in generale) senza una regolare licenza per farlo.
Tutti abbiamo accesso ai social media, che sono, però, costantemente monitorati e chiunque è sempre invitato dalla polizia a segnalare, tramite app dedicata, qualunque tipo di violazione alle norme.
Se si accettano le regole del gioco, vivere a Dubai può essere meraviglioso: pulizia, sicurezza e gentilezza sono le prime cose che più colpiscono una volta approdati, e le cose che più mancano una volta andati via.
Allo stesso tempo, però, colpisce anche tanto la disparità di trattamento salariale che, ancora oggi, anche se non più così tanto come in passato, viene riservato ai lavoratori in base al loro passaporto, a parità, o quasi, di mansione: il salario, infatti, è tradizionalmente stato calcolato più in base al costo della vita del Paese di provenienza che di questo in cui viviamo, cosa che ha portato a disuguaglianze molto evidenti. Oggi però, con l’acuirsi della crisi economica non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale, è sempre più facile imbattersi in giovani europei aspiranti camerieri, meccanici o aiuto-cuochi pronti ad accettare stipendi e condizioni contrattuali simili a quelli fino ad ora comunemente proposti ai loro coetanei indiani e filippini, abituati da sempre ad un tenore di vita meno agiato e con molte meno aspettative in termini di divertimento, vita notturna, club esclusivi.
In questa parte di mondo, infatti, i lavori manuali e quelli non specializzati sono sempre stati appannaggio di manodopera asiatica a basso costo: è così che Dubai è cresciuta così in fretta in così poco tempo. Certamente c’è stata, alle spalle, una visione strategica eccezionale, ma se è stato possibile realizzarla è stato anche grazie alle migliaia e migliaia di lavoratori provenienti soprattutto da India e Pakistan, pronti a lavorare anche più di 12 ore al giorno, sei giorni a settimana, uno o due anni consecutivi, senza fare domande né pretendere misure di sicurezza o diritti di alcun tipo, mangiando poco più di una porzione di riso e pollo e dormendo in camerate da 8/10 persone. A loro, sì, e spesso anche al personale di hotel e ristoranti, ai domestici e agli addetti alle pulizie, il passaporto veniva ritirato e custodito in una cassaforte: per non rischiare che lo perdessero o che venisse loro sottratto, ufficialmente, ma anche per evitare che loro scappassero. Uno stipendio di 200 dollari al mesi era certamente allettante, nel loro villaggio, qualcosa da prendere al volo e firmare di corsa, ma una volta arrivati si apriva loro un mondo completamente diverso, in cui quei soldi erano solo pochi spiccioli. Nella visione di chi li aveva assunti, però, il datore di lavoro aveva sostenuto i costi del loro biglietto aereo, dei loro documenti (un visto per questo genere di dipendente costa circa mille euro), della loro assicurazione sanitaria, dell’alloggio ecc…una fuga di massa avrebbe comportato gravi perdite.
Da diversi anni ormai, trattenere il passaporto è un reato: tranne pochissime eccezioni, non si può fare legalmente senza il consenso del lavoratore stesso, ed è importantissimo che i connazionali che si affacciano sul mondo del lavoro locale ne siano consapevoli e pretendano di tenerlo con sé.
Ma come si ottiene un visto per vivere a Dubai?
Tendenzialmente, bisogna avere un lavoro: Covid e restrizioni temporanee a parte, per un italiano è possibile venire qui con un visto turistico (gratuito, della durata di 90 giorni) e cercare lavoro direttamente sul posto, oppure affidarsi a head hunter o a siti internet dedicati, direttamente da casa (ma attenzione alle truffe: se viene chiesto di inviare denaro o anticipare spese, lo è certamente). Una volta firmato il contratto, il datore di lavoro (che diventa lo “sponsor”) si incaricherà di convertire il visto turistico in quello lavorativo, di fornire l’assicurazione sanitaria (il cui livello di copertura varia tantissimo in base al lavoro stesso e allo stipendio) e pagare almeno un biglietto di andata e ritorno all’anno per il Paese di provenienza. La casa può essere fornita direttamente dal datore di lavoro oppure, più frequentemente pagata come “allowance” inclusa nello stipendio.
Per ottenere il visto di residenza si può anche aprire una società, acquistare un immobile a determinate condizioni o, per alcune posizioni, richiedere un permesso come “freelancer”.
Venire a vivere a Dubai è un sogno per molti, per il mare, il clima, il fascino di questa città e perché, lo sanno tutti, qui non si pagano le tasse: che paradiso! Già, però, oltre ad esserci “fee” (guai a chiamarle “tasse”) nascoste in bollette, ricevute e prestazioni amministrative, non c’è un sistema pensionistico e i servizi pubblici sono ridotti al minimo indispensabile: immaginate un Paese in cui una scuola elementare costa molto più della più prestigiosa delle nostre università private, in cui se vi viene inviato qualcosa per posta dovete andare a prendervelo all’ufficio postale centrale, in cui se non si ha un lavoro abbastanza prestigioso o ben pagato l’assicurazione medica copre solo l’essenziale e, nello sfortunato caso in cui dovesse succedere qualcosa di grave si debba prendere il primo volo e tornare da dove si è venuti.
Per chi ha una buona assicurazione, invece, ci sono strutture sanitarie private che sembrano hotel a cinque stelle, con macchinari all’avanguardia e menù “à la carte”. Così tante, che decidere in quale andare e trovare un bravo medico è sempre un terno al lotto: se si chiede un consiglio sui social, in tantissimi risponderanno che il dottor tal de’ tali è “il top”, “il migliore della città”, “raccomandatissimo” per poi magari scoprire che è il loro vicino di casa, o l’unico che abbiano mai consultato oppure che ha curato loro solo un raffreddore, ma visto che lo ha fatto dopo aver prescritto una mezza dozzina di esami e con fare gentile e simpatico, deve essere “certamente” il miglior dottore della città. Se poi si tratta di un medico italiano, allora viene raccomandato dagli italiani a prescindere, perché un medico italiano è “sicuramente” il migliore della città!
A Dubai, lo sentiamo dire continuamente, è “tutto finto”, “non c’è cultura” e “non c’è natura”. Da un lato mi chiedo sempre perché i grattacieli di New York vengano considerati “autentici” mentre quelli di Dubai “finti”, dall’altro noto che, spesso, chi lamenta una mancanza di cultura non sia davvero interessato a scoprire e conoscere culture diverse: è ovvio che un Paese così recente non ha monumenti storici paragonabili, nemmeno lontanamente, a quelli a cui siamo abituati noi, ma è altrettanto vero che c’è un grande sforzo istituzionale per valorizzare e divulgare tutto ciò che fa parte della tradizione emiratina e della regione in generale. I musei non saranno certo ricchi come i nostri, ci mancherebbe, ma l’esposizione dei reperti e le spiegazioni sono ben curate, e le gallerie d’arte, le mostre e gli spettacoli teatrali esistono eccome. Questi ultimi, non sempre a buon mercato, ma siamo, pur sempre, a Dubai!
La natura, invece, è a portata di tutti ed è gratuita! Inutile ostinarci a cercare boschi (i parchi ci sono, intendiamoci, e sono anche molto belli e perfettamente curati, ma non possiamo compararli con i nostri, perché, questi sì, sono artificiali, nel senso che sono stati creati grazie a un importante sistema di irrigazione). Qui abbiamo il mare, sfruttabile quasi tutto l’anno (tranne durate i tre mesi estivi, quando si sta meglio in una piscina raffreddata, perché l’acqua del mare è, effettivamente, troppo calda per trovare refrigerio), ma, soprattutto, abbiamo il deserto. È una “natura” diversa, che si impara a conoscere ed apprezzare pian piano, ma che regala tantissime possibilità di intrattenimento e relax: è perfetto per una passeggiata, la cornice ideale per yoga e meditazione, luogo romantico per un barbecue al tramonto, parco giochi infinito per i bambini, posto ideale per cantare con la chitarra intono al fuoco. Ci si possono organizzare feste senza infastidire i vicini di casa, andare a fare “dune bashing” con moto, auto o quad, passeggiate a cavallo e a cammello, passare la notte in tenda, godendo di colori e paesaggi profondamente diversi da un punto all’altro.
Solo per citarne alcuni, ad Al Qudra la sabbia è bianca e le dune non eccessivamente alte, a Pink Rock la sabbia è rosata, ma al tramonto si colora di un rosso caldo, a Liwa le dune sono alte come colline, di un rosso acceso, e da Al Faqa si può godere di un incredibile cielo stellato, perché non c’è alcun inquinamento luminoso. Si avvistano spesso gazzelle e orici, falchi e volpi del deserto, ma anche una gran quantità di uccelli migratori intorno alle oasi naturali e artificiali create appositamente per loro. Oltre agli immancabili dromedari, ovviamente, che spesso passeggiano liberi, pascolando tra cespugli e qualche albero solitario.
E poi, non lontano, ci sono le montagne, completamente diverse dalle nostre (molto più spoglie, perfette per gli amanti del trekking) che si affacciano sul mare, laghi o “wadi” (letti di torrenti che ricordano canyon o canaloni) e che ospitano villaggi che sembrano fuori da questo tempo.
Dubai è piena di “luoghi di aggregazione” ed è pensata sia per single che per famiglie con bambini: tutti arrivano soli, abbiamo detto, e tutti hanno la stessa necessità di crearsi velocemente una vita sociale. Ogni spiaggia ha le reti da beach volley, ogni community i parchi-gioco, le piscine, le palestre e i campi da basket o da tennis, un piccolo centro commerciale con caffè e ristoranti. Anche molti grattacieli hanno piscina e palestra, a volte sauna, bar e minimarket al piano terra e in ognuno di questi vengono regolarmente organizzati corsi e lezioni di ogni tipo, per tutti i gusti e tutte le età.
Gli animali domestici sono benvenuti quasi ovunque, con qualche restrizione in base alla razza e tranne in determinate residenze dichiaratamente “pet free”. Anche per loro esiste un grandissimo mercato per farli socializzare e divertire, ma c’è il rovescio della medaglia: quello degli abbandoni, che è purtroppo un problema molto più ampio di quello che non si possa immaginare. Dubai, come abbiamo visto, è, per quasi tutti, un “luogo di passaggio” non una “meta definitiva”, così, ci sono tante, troppe famiglie che, al momento della partenza (spesso non pianificata, o comunque non pianificata con grande preavviso), scoprono di non poter pagare i costi (decisamente alti) della “relocation” del loro compagno a quattro zampe, o decidono di non volerlo sostenere, e, se non trovano nessuno a cui affidarlo, semplicemente lo lasciano lì, nel parcheggio del grattacielo o nel parco della community, contando sul fatto che, prima o poi, qualche associazione o volontario mosso a compassione se ne occupi, nonostante sia risaputo che questi volontari stiano annegando nei debiti con i veterinari e non abbiano più risorse per accogliere tutti i cani ed i gatti abbandonati.
Dubai è luci ed ombre, dunque, una città che fino a meno di un secolo fa era abitata da pescatori, raccoglitori di perle e allevatori di cammelli, che rispetto a qualunque altro Paese del mondo ha avuto un progresso straordinario in un tempo brevissimo, saltando tutte le tappe storiche e sociali che hanno caratterizzato Casa nostra, e che, nonostante tutto, riesce a offrire opportunità straordinarie a chi è determinato e capace abbastanza da saperle cogliere. E’ parte di una Nazione in continua evoluzione: negli ultimi due anni sono probabilmente state fatte e modificate più leggi che in Italia negli ultimi dieci e, nonostante la burocrazia sia terribilmente macchinosa, le buone idee, se si trova l’interlocutore giusto, vengono ascoltate. Così ci si sente parte di una realtà che, se da un lato contribuiamo a fare crescere noi, dall’altro cambia con e per noi, una realtà in cui si può effettivamente non solo provare, ma anche riuscire a fare la differenza.

Benedetta Pasero è a Dubai dal 2012. In Italia era giornalista e autrice. Nel 2014 ha dato vita all’associazione “One day Sofia… – Ricerca senza confini per la cura della Sindrome di Rett, oggi “InvertiRett, che raccoglie fondi da destinare alla Ricerca Scientifica per curare la malattia di cui è affetta la sua bambina. Nel 2015 è stata eletta come membro del Co.Mit.Es della circoscrizione di Dubai e gli Emirati del nord, per il quale, ad oggi, cura la comunicazione.